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Il Green New Deal è tornare a vivere in montagna e in collina

Anche chi, meritoriamente, propone un Green New Deal spesso trascura le implicazioni sull’ambiente della distribuzione demografica. Il prof. Fabio Caporali ci spiega perché il recupero delle zone montane e collinari è uno snodo sempre meno rimandabile.

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Borgate e borghi fantasma, paesi di villeggiatura deserti quasi tutto l’anno, frane, periferie che tendono all’infinito e cartelli che annunciano terreni edificabili in ogni appezzamento rimasto libero. Nonostante le esperienze di ritorno si siano moltiplicate in questi anni, sono ancora queste le cartoline più numerose del panorama italiano.

Il modello di sviluppo, seguito in particolare dal secondo dopo guerra, ha posto fine, infatti, alla civiltà contadina e al suo millenario patrimonio di sapere, rimpiazzando la sua cura capillare del territorio con lo sfruttamento intensivo ed inquinante delle forme industriali, e ha generato un forte squilibrio territoriale, con la desertificazione della montagna e la congestione della pianura. Le conseguenze, dal punto di vista ecologico, si fanno sentire: agricoltura e allevamento convenzionali sono responsabili di un’enorme fetta di emissioni, avvelenano le falde acquifere e compromettono la fertilità del suolo, mentre lo squilibrio demografico causa il mancato controllo del ciclo idrologico nei territori collinari e montani, l’erosione della campagna legata alla selvaggia urbanizzazione e l’insostenibilità socioambientale di città sempre più grandi.

Per evitare gli ingenti sprechi di risorse e le pericolose disfunzioni ambientali, oltre che per alleggerire le città dalla pressione demografica, occorrerebbe quindi ripopolare le aree rurali, fornendo servizi essenziali e sviluppando attività ecosostenibili, a cominciare dalle migliori pratiche di agricoltura e allevamento. Uno snodo sempre meno rimandabile, data la morfologia dell’Italia.

<<Montagna e collina rappresentano il 75% del territorio italiano. Bisogna far rifiorire la vita in queste zone, è un investimento per il futuro>>, mi racconta Fabio Caporali, Professore ordinario di Ecologia agraria all’Università della Tuscia di Viterbo, tra i massimi esperti e punti di riferimento dell’agroecologia a livello mondiale.

Per cambiare bisogna cominciare dall’approccio alla gestione del territorio. <<Le risorse ambientali (aria, acqua, risorse naturali e suolo, ndr.) vanno viste all’interno di un territorio unitario. Questo territorio unitario è il bacino idrografico perché lo puoi vedere nel suo insieme e, al suo interno, materia, energia, biodiversità circolano e si organizzano in una certa maniera. Dal punto di vista ecologico, quindi, la situazione ottimale sarebbe fare una programmazione dell’agricoltura a livello di bacino idrografico>>.

Una volta stabilita l’unità da gestire, occorre affrontare l’urgente questione del disequilibrio demografico. <<La prima cosa da fare da un punto di vista politico è riequilibrare la densità demografica nei bacini idrografici. E’ indispensabile, ma serve una politica di lungo orizzonte>>. Attualmente, infatti, chi vive in montagna è fortemente penalizzato. <<La vita costa di più, i servizi non ci sono più, mancano gli ospedali, mancano i dottori, le farmacie e le scuole. La gente è costretta a venir via dalla montagna>>.

Ma la montagna ha molto da offrire. <<E’ molto più ricca di acqua della pianura. E l’acqua permette di fare tante attività. I romani quando facevano le città, la prima cosa che facevano era portarci l’acqua. Perché senz’acqua non c’è metabolismo: l’acqua porta metabolismo alla cellula, all’organismo, alla città, che è un insieme di organismi umani. La gestione dell’acqua è, quindi, indispensabile>>.

E montagna significa maggiore biodiversità, un serbatoio inimitabile di specie vegetali e animali. Prati e alpeggi offrono poi cibo in quantità per i pascoli. Cibo sano. <<Gli animali da pascolo mangiano l’erba. Anzi, mangiavano l’erba, perché, nel modello industriale, mangiano quello che dovrebbe mangiare l’uomo, come leguminose e cereali. E’ un’alimentazione distorta, perché l’apparato digerente dell’animale erbivoro ruminante è fatto apposta per digerire la cellulosa delle piante e non le granelle. Quindi, l’animale soffre di acidosi permanente perché non ha lo stomaco adatto. I veterinari lo sanno>>.

In una visione distorta, li abbiamo ridotti al ruolo di macchinari industriali. <<Li trattiamo come fossero macchine funzionali ai nostri scopi, non rispettando la loro costituzione. Perché in rapporto alla loro costituzione questi animali han bisogno dell’erba e non della granella. E li mettiamo in gabbia>>. Oltre a far soffrire gli animali, l’allevamento intensivo è fonte di grande inquinamento e consumo di suolo e utilizza un enorme quantità di risorse non rinnovabili. <<Sono distorsioni forti, che devono essere riviste in una visione di un sistema integrato>>.

Un sistema che risponde al nome di agroecologia, che rispetta i bisogni degli animali e li considera come componenti fondamentali dell’ecosistema agrario. Un ambiente sano e un’alimentazione adeguata prevengono le malattie ed evitano il massiccio uso di antibiotici a cui gli animali sono sottoposti nell’approccio industriale. Inoltre, l’integrazione degli animali all’agricoltura garantisce la massima autonomia all’azienda agraria, permettendo di creare un’economia circolare. <<Oltre a fornire carne, latte, lana, danno il letame che serve ai microrganismi del terreno per la sostanza organica e l’humus>>. Così il terreno migliora la sua capacità di assorbire l’acqua e aumenta la fertilità.

La montagna, con la sua straordinaria biodiversità, offre le condizioni ideali a questo sistema integrato, che restituisce benessere agli animali e può beneficiare dell’energia rinnovabile. Ad esempio di quella del bosco. <<Prima si faceva tutto con l’energia del bosco. Quando c’erano le ferriere, in montagna si tagliava la legna, si faceva il fuoco e si fondevano i metalli. Ora si prende il petrolio o il metano e si fanno le stesse cose in pianura. Solo che in montagna è energia rinnovabile perché il bosco, se lo tagli a ceduo, ogni 15-20 anni ti fornisce lo stesso materiale. Una gestione selvicolturale a ceduo è sempre stata utilizzata da tutte le generazioni, fuorché dalle nostre, che l’hanno abbandonata. Perché era il modo per darti l’energia. Ti dava l’energia a basso costo, rinnovabile>>.

Acqua, energia della foresta, la possibilità di integrare al meglio agricoltura e allevamento. In una parola, lavoro. <<Queste sono tutte attività che richiedono molto lavoro. E dai la possibilità alla gente di stare sul posto. E quindi rendere la montagna un luogo abitabile>>. E allora, con la disoccupazione all’11% e un’occupazione spesso precaria e di bassa qualità, serve una politica che crei le condizioni. <<Bisogna fare una politica del territorio, studiare meccanismi di incentivi, di tasse per far sì che la gente si sviluppi più in montagna e meno in pianura. Bisogna cambiare regime, disincentivando le attività che si fanno in città>>.

Non si tratta di ricreare una società contadina. <<E’ una società ecologica, non contadina. Il tuo computer puoi usarlo anche in montagna. Anche lì puoi fare il tuo lavoro. Forse è anche più distensivo perché il lavoro lo fai con più soddisfazione sotto l’ombra di un abete o di un faggio che nelle città affumicate estive>>.

Se guardiamo agli ultimi 70 anni, dominati da un’espansione urbana esasperata, sembra un’utopia. Ma un’utopia necessaria, perché la città è diventata insostenibile. <<Una città più è grande e più richiede energia. Quand’ero bambino io, c’era la cultura del risparmio, non quella dello spreco. Non c’erano supermercati, né impacchettamenti, ma la materia prima, che ti veniva data dopo esser stata pesata e tu la mettevi nella tua borsa e la portavi a casa. Non c’era tutta questa massa dell’impacchettamento che oggi serve per lo stoccaggio e la commercializzazione. Un sovrappiù che non serve a nulla. La spesa energetica, di scarto, è enorme perché i pacchi costano tanto energicamente e producono tanto scarto, che poi devi smaltire>>.

Si è persa la capacità di riciclo. <<Il rifiuto non si crea nelle piccole realtà rurali, perché ci pensa l’uomo stesso in famiglia a riciclarlo. Perché ha il pollaio, ha il giardino, ha il compostaggio. L’uomo è capace di organizzarsi con poco. Perché è un artigiano, conosce l’arte di fare le cose bene>>. E’ un patrimonio di sapere, di cultura, che fa parte della nostra storia. <<Questo pregio di essere artigiani, specialmente noi italiani, non lo dobbiamo perdere. Non dobbiamo perdere l’artigianato, la capacità, l’inventiva di fare le cose fatte bene. Specialmente nella cura del proprio territorio, della propria casa e del territorio che sta attorno. E in tutte le culture di tutte le regioni, specialmente al nord, abbiamo questo patrimonio>>.

Occorre ritrovare un pezzo importante della nostra identità, del nostro posto nel mondo. <<L’uomo non è un elemento di disturbo, è un elemento di cura. I guai li fa l’uomo deculturato, senza più la cultura adatta. E’ educato male dalla sua stessa società, che segue delle vie sbagliate di sviluppo. Ha abbandonato il senso di appartenenza alla natura>>. Una natura con cui ha perso il contatto. <<I ragazzi che vivono in città non vedono la campagna, non sentono il fiume, non vedono la biodiversità. Se non c’è il contatto, perdi culturalmente. Se vivi in città, ti metti nella prigione. E in una prigione uno come può essere allevato? Da prigioniero>>.

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