Col nuovo millennio Milano ha innalzato le gru, trasformando quartieri e skyline. E altri ambiziosi progetti sono in calendario per i prossimi anni. Non è la prima volta che accade: già nel corso del Novecento, il capoluogo lombardo aveva subito ripetute e profonde alterazioni del suo tessuto urbano. Oggi come allora, i cambiamenti sembrano tradire il DNA storico della città. Giancarlo Consonni, professore emerito di Urbanistica al Politecnico di Milano, ci racconta com’era e com’è cambiata la metropoli più internazionale d’Italia. E perché deve ritrovare se stessa.
<<Piazza Gae Aulenti per chi è piazza?>>. Giancarlo Consonni, professore emerito di Urbanistica al Politecnico di Milano, osa mettere in discussione il simbolo per eccellenza del nuovo corso milanese. La piazza, una spianata circolare dominata dai 231 metri rivestiti in led della Torre Unicredit, è l’opera più celebre del Progetto Porta Nuova, che dal 2005 ha rivoltato come un calzino il quartiere terziario Centro Direzionale di Milano: oltre venti nuovi edifici, tra cui i grattacieli Torre Diamante, Torre Solaria e il celebratissimo Bosco Verticale, a cui si aggiungeranno la Torre UnipolSai, nel 2019, e la Torre Gioia 22, nel 2020.
Uno skyline completamente trasformato, considerando anche la costruzione del limitrofo Palazzo Lombardia, inaugurato nel 2010, e delle tre torri del progetto City Life, nella zona dell’ex Fiera. Se si pensa, poi, agli interventi per l’EXPO del 2015, al progetto che intende trasformarlo in Città Studi (Parco della scienza del sapere e dell’innovazione) entro il 2027 e, infine, al piano che convertirà i sette scali ferroviari dismessi in quartieri di uffici, residenze, servizi e parchi, si capisce come siamo di fronte a una vera e propria rivoluzione urbanistica della città.
Una rivoluzione esaltata da televisioni e giornali, sempre pronti a tessere le lodi della nuova Milano, l’unica città italiana in grado di competere con le più importanti realtà urbane internazionali, accaparrandosi capitali ed energie creative. Per comprendere se i media hanno ragione, dobbiamo fare un breve salto nel tempo e guardare a quando Milano ha cominciato a cambiare, perdendo un patrimonio di bellezza, relazioni e saperi.

I tre bombardamenti
Tutto è cominciato con la guerra. Anzi, le guerre. <<Sono state tre le guerre di attacco alla città>> mi spiega Consonni. <<Non solo la seconda guerra mondiale, che ha distrutto il 20% del suo patrimonio, ma anche una guerra precedente e una guerra successiva al conflitto armato, entrambe condotte in nome dell’urbanistica>>.
La prima è avvenuta nel Ventennio, con il famigerato piccone demolitore fascista. <<Doveva realizzare un disegno classista, che io e Graziella Tognon abbiamo chiamato città corporativa: una città piramidale dove il centro è dei più ricchi e le estreme periferie dei più poveri. Questo era il modello che perseguiva tenacemente il fascismo, coadiuvato anche dalla trasformazione di Milano in capitale economica d’Italia>>.
Per realizzare il suo disegno, il fascismo cancellò un’enorme fetta di città storica. <<Distrussero 60 mila vani, più o meno l’equivalente di una città come Bergamo: tenendo conto della densità, si possono calcolare circa 100 mila abitanti espulsi>>. Una perdita rilevante anche in termini di composizione del tessuto urbano. <<Non è avvenuta solo una trasformazione legata alla gentrification, ma anche una sostituzione di attività, con una parte del patrimonio residenziale che è stato rimpiazzato da uffici e altre tipologie di residenze. Una perdita enorme di complessità>>.
E’ questo un processo che ha radici profonde, come abbiamo visto nell’articolo sull’urbanistica. Nella prima metà del Novecento, infatti, l’avanzare del capitalismo e l’affermazione di alcune correnti di pensiero (in particolare, il razionalismo) cancellarono quel patrimonio di saperi che aveva a lungo guidato l’urbanistica: i principi di efficienza, economicità e produttività s’imposero a discapito delle relazioni e l’abitare condiviso non venne più riconosciuto come motore delle città. E’ in questo contesto che va considerato il ruolo svolto dal fascismo. <<Il fascismo, per i tipi di rapporti di forza esistenti, è stato un abbrivio pesantissimo di un processo che era strisciante>>. Un percorso continuato poi nel secondo dopoguerra. <<Senza una sostanziale modifica di traiettoria. E quindi le tre guerre di cui parlo hanno portato al cambiamento radicale della natura della città, del suo modo di essere>>.
E’ il cuore della città ad aver subito le trasformazioni più radicali. <<La parte più interna ai bastioni spagnoli è stata particolarmente colpita. Ancora peggio è andata alla zona interna ai navigli, il cuore della città, perché lì sopravvivevano delle enclave popolari>>. Enclave popolari di cui sbarazzarsi. <<Il giudizio sottostante, espresso in modo esplicito solo durante il fascismo da Cesare Albertini, era che lì si addensavano le classi definite dangereuses dalla polizia francese nell’Ottocento: poiché vi era anche prostituzione o piccola delinquenza, l’insieme del corpo, del tessuto, era considerato malato dal punto di vista igienico e morale. Questo giudizio di degrado morale ha costituito la motivazione più o meno esplicita per poter usare il piccone demolitore>>.
E un ruolo determinante lo ha giocato l’automobile. <<Sotto il fascismo, si afferma l’idea di creare percorsi automobilistici a scapito dei meandri di derivazione medievale, perché lì le automobili non avevano spazio. Un’idea assurda>>. Proseguita anche nella seconda metà del Novecento. <<Nel ‘900, quando si usa come grimaldello l’idea doppia dell’efficienza dei trasporti automobilistici e dell’igienicità, si procede a sfasciare il tessuto esistente, senza più una regola. Un esempio lo si trova in via Larga, o in via Albricci o in corso Europa: ci sono foto degli anni ’60 in cui dilagano le automobili. Una follia assoluta. Si pensi anche al carosello di automobili che si formava attorno al Duomo di Milano. A questa follia il ‘900 è rimasto attaccato fino agli ultimi due decenni e l’ha praticata selvaggiamente>>.

Il DNA di Milano
Un lungo incalzare, quello del Novecento, che ha alterato nel profondo l’anima schiva e gentile della città. <<Alberto Savinio, in Ascolto il tuo cuore, città, sotto le bombe del ’44, scrisse che le sue strade erano “atte alla conversazione”. Colse la natura degli spazi milanesi, fatta di discrezione, affabilità e misura>>. Una natura sublimata dai magnifici cortili interni, che prima o poi rapiscono lo sguardo di chiunque gironzoli per il centro storico. <<I cortili milanesi riprendono il modello della domus romana, dove l’”internità” protetta della casa è in relazione con la strada: dall’androne si potevano intravedere i giardini, il cuore della domus>>. Un’idea di relazione che non appartiene soltanto alla parte benestante della città. <<Quella dei cortili è una Milano perlopiù nobile e dei ceti borghesi, ma se andiamo a vedere anche nella Milano popolare la corte era un elemento costitutivo, l’elemento matrice dello spazio urbano>>. Una sorta di codice genetico. <<Ogni città ha un DNA, un elemento generatore, fatto di relazioni, del modo di concepire la convivenza civile. Nel caso di Milano era il tema della discrezione, della riservatezza, e nello stesso tempo dell’accoglienza di una misura condivisa>>.
Mentre Giancarlo Consonni mi racconta la città in cui ha insegnato e passato gran parte della sua vita, mi torna in mente lo stupore provato tante volte durante le passeggiate milanesi dei miei anni universitari. All’improvviso, dalle grate di un cancello o da un portone spalancato, appariva uno scorcio di bellezza discreta, mai ostentata, suscitando quell’emozione descritta da Montale nella poesia I Limoni:
“Quando un giorno da un malchiuso portone,
tra gli alberi di una corte,
ci si mostrano i gialli dei limoni,
e il gelo del cuore si sfa”.
<<Tutto questo è stato l’oggetto delle bombe, ma anche delle distruzioni condotte in nome delle semplificazioni di cui è responsabile il cosiddetto razionalismo, che ha avuto tanti meriti, ha prodotto anch’esso architetture pregevoli, ma ha fornito l’alibi alla speculazione per far deflagrare questo tessuto minuto, queste ragioni intime, questa co-appartenenza di privato e di pubblico>>. Razionalismo che, nella visione di Le Courbusier, affida a tecnologia e natura il compito di rimpiazzare i legami tra gli edifici e il contesto circostante. <<Si diffonde l’idea della casa che s’isola nel verde. Un verde, tra l’altro, quasi sempre misero, un verde che abolisce il tema del connettivo. Cosa di cui si accorgeranno in America Jane Jacobs, quando celebra la funzione della strada, e in Italia un razionalista pentito come Piero Bottoni, quando parlerà della strada vitale, riscoprendo la funzione fondamentale della strada urbana come elemento di vitalità relazionale>>.
La Milano del futuro tra isolamento e rendita immobiliare
Questa concezione del verde che sostituisce il connettivo la ritroviamo in alcuni dei progetti più celebrati degli ultimi anni. Ad esempio a City Life, dove lussuose residenze firmate da archistar si affacciano su un parco. <<Il verde è catturato in due grandi insiemi, abitati da persone abbienti che si asserragliano. E’ verde pubblico, ma è catturato dentro questa sorta di grande spazio. Il resto è pavimento, come se ci fosse paura di sapere cosa c’è sotto gli alberi, visti dall’alto>>. Agli occhi di un urbanista, a risaltare è soprattutto la solitudine. <<Emerge la solitudine non solo dell’edificio, ma anche dello spazio circostante, che non è più un elemento di connessione, ma un luogo da guardare con sospetto>>. E qui entra in gioco il tema della sicurezza, adattato ai giorni nostri. <<Si afferma un’idea di sicurezza intesa come assenza di elementi dove può nascondersi l’infido>>.

Principi che definiscono anche l’osannato Bosco Verticale. <<E’ un aggiornamento per una società di eletti e vincenti che si gode un trionfo, isolata nella torre. La natura sembrerebbe a disposizione dei cittadini, ma in realtà è colonizzata da questo tipo di insediamento, che insegue fasce di mercato altissime. C’è un’idea parassitaria in chi vive in edifici come il bosco verticale. Sono delle gated communites mascherate: sei calato lì e ti fai il bagno nel quartiere limitrofo>>. Così come chi trascorre qualche ora nel giardino sottostante. <<Allo stesso modo i ragazzi di periferia si fanno il bagno nel paesaggio. Ma non c’è il collante>>.
A prevalere è la tentazione di chiudersi in un enclave da parte delle classi più agiate. <<In una società dove aumentano le disparità, i ceti dominanti non vogliono più la città dove si mostravano vincenti. Vogliono qualcosa di più: vogliono la sicurezza, l’isolamento, si asserragliano. Le città sudamericane lo dimostrano. E questa malattia sta entrando anche nella vecchia Europa, sotto forma piuttosto camuffata ancora. Ma è dietro l’angolo l’idea dei recinti difesi, rispetto al resto che è infido>>.

Sembrano lontanissimi i tempi in cui i ceti più disparati vivevano gomito a gomito. <<Parlando della città del suo tempo, De Amicis raccontava come nel microcosmo di un cortile fossero rappresentate quasi tutte le classi sociali: c’era l’artigiano, c’era chi faceva un lavoro di servizio e c’era poi il borghese, che abitava nelle parti più esposte, più accoglienti e più dotate di spazi e servizi>>.
Oggi, invece, i ceti più bassi si dividono tra periferie ghettizzate e la città sparpagliata. <<Si sono formate le periferie monoclasse, dove ci sono zone di forte sofferenza sociale. La cosiddetta città diffusa ha un po’ rimescolato le cose e le ha per ora un po’ dissimulate>>. Ma i costi sono enormi. <<I costi sociali di funzionamento della città diffusa sono elevatissimi. Oltre a quelli economici, ci sono i costi culturali. Attorno a cosa ruota questa marea d’insediamento sparso? Ruota attorno all’ipermercato, alla città mercato>>. E a mancare sono i luoghi d’aggregazione, di condivisione. <<Non c’è più la sensazione di collaborare a qualcosa di condiviso che merita di essere difeso. Non c’è più il sentimento condiviso che quello è il luogo dove si vive e dove vivranno le prossime generazioni, motivo per cui questo luogo va preservato, non per sé, ma per quelli che devono venire>>.
Nemmeno nelle piazze l’architettura contemporanea riesce a costruire condivisione, aggregazione. <<Piazza Gae Aulenti per chi è piazza?>>. Un tempo, la piazza, erede dell’agorà greca e del foro romano, sublimava la tensione relazionale della città, era il luogo dell’incontro per eccellenza. Tutti gli edifici che la delimitavano concorrevano a farne il teatro della vita pubblica, in armonia l’uno con l’altro e con il contesto circostante. Ma a Piazza Gae Aulenti questo non accade perché qui, “ogni organismo edilizio è chiuso in una totale solitudine, incapace com’è di istituire un legame con gli altri edifici e con l’intorno, verso cui si proietta disperatamente in un’esibizione narcisistica” (pag. 57 di Urbanità e Bellezza. Una crisi di civiltà, Giancarlo Consonni, ed. Solfanelli).
Un narcisismo figlio della perdita di sapere da parte dell’urbanistica modernista: privilegiando igienicità e funzionalità a discapito delle sottili regole che favorivano l’abitare condiviso, come l’affabilità, la somiglianza, la congruità, la coralità, ha portato gli edifici a conformarsi in una piatta uniformità o a distinguersi in un individualismo spinto e vanesio, fine a se stesso.
Così, piazza Gae Aulenti appare incapace di esercitare la sua funzione di spazio pubblico. <<Non c’è il paesaggio, non c’è la complessità, non ci sono il dentro e il fuori. Ti trovi nello spazio di una delle maggiori banche, ospite di questo neopaternalismo camuffato. Ospitato a far che? Se non ci fosse il bar della Feltrinelli, ci sarebbe il deserto. E se si spegnessero le luci alle 9 di sera, come succede in ogni ufficio, sarebbe un mortorio>>. L’euforia che suscita la piazza sembra allora una conseguenza del provincialismo. <<E’ vissuta come un’extraterritorialità dove poter provare l’ebbrezza della metropoli asiatica o statunitense. E’ un aspetto del provincialismo. E’ un paesaggio drogato, non è un paesaggio del vissuto>>.

Un paesaggio drogato dall’accoppiata che produce il paesaggio contemporaneo: tecnologia e rendita immobiliare. <<Lo skyline di oggi è l’istogramma della rendita immobiliare>>. Il problema, per chi la città la abita, è che gli investitori privati non sanno e nemmeno dimostrano l’interesse di costruire città. <<Il capitale che si muove a livello mondiale vive parassitariamente rispetto alla città esistente, ma non ha la capacità di fondare città. Tu non puoi pensare di sfruttare la città senza restituire qualcosa. Devi continuare il racconto. Devi dire la tua, ma questo deve avere una dimensione condivisibile, non la tua dimensione, non quella cosa per cui io ti guardo e dico “ah, però!”>>.
Questo è ancora più evidente a City Life. <<Dove peraltro, se non si fossero conclusi gli accordi con Allianz e Generali, sarebbe stato un bagno di sangue. C’è uno sfitto terziario a Milano di proporzioni gigantesche, e oltre 90mila vani di abitazioni non occupati, ma si dà vita a una super produzione di terziario. Quindi, dove vogliamo andare? Quanti altri affari di quelle proporzioni, che hanno salvato sul rotto della cuffia, combineremo? Quante multinazionali pensiamo di avere ancora a disposizione per queste operazioni?>>.

E assurda appare anche la trasformazione di Expo in una Città Studi. <<E’ un’operazione demenziale, che alimenta una non città. Gli interventi avrebbero dovuto rafforzare il potenziale urbano della regione, che è fortemente strutturata, e non creare una nuova città che è un’anti-città. Un buco nero che assorbirà le energie della città, tutto il contrario di quello che andava fatto. Bisogna sostenere le energie interne già prodotte dalla città e non viceversa>>. Come avviene con successo nei casi di BookCity e del FuoriSalone. <<Più del Salone del Libro alla Fiera di Rho, a Milano, funziona BookCity, perché è capillare. Lo stesso FuoriSalone funziona di più perché riprende la città e porta la gente in giro a scoprire il fascino di ciò che sopravvive ancora>>.
Le vere risorse da valorizzare
Le energie che Milano ha in abbondanza, ma non sfrutta a dovere si concentrano soprattutto nel suo enorme patrimonio universitario. <<Ci sono più di 11 università, oltre 200mila studenti. L’energia che circola in questa città è strepitosa. Però, c’è una politica della ricerca? C’è una politica dell’istruzione? C’è una politica del futuro? Non c’è, ma è quello collante>>. Un collante su cui scommettere. <<E’ giusto che la città sia il luogo dove si scommette, dove si può uscire dalla morsa della globalizzazione, però è una lotta darwiniana e devi saper fare le politiche giuste, compresa ovviamente una politica urbanistica, che è essenziale in questo discorso>>.
Favorendo le energie che nascono dal basso. <<Gli anticorpi ci sono. Ad esempio, Oliviero Ponte di Pino, il vero motore di BookCity, aveva raccolto le energie alla Fabbrica del vapore, una quarantina di esperimenti che si muovono nel corpo della città, figlie di questo fermento giovanile che anima i luoghi. C’è come uno strato sotterraneo che noi non conosciamo, io non conoscevo, ed è stata per me una boccata d’ossigeno. Questi gruppi, però, si trovano in grandi difficoltà perché assieme all’assegnazione di spazi ricevono l’incarico di recuperarli. Una zavorra che taglia loro le gambe, perché chi, tra loro, ha la possibilità di investire? Però c’è quest’energia nella città, un’energia straordinaria che andrebbe liberata dal patrimonio degli studenti e della formazione>>.
E’ da lì che dovrebbe ripartire Milano per riprendere in mano la sua tela. <<La città è come una tela. Se si perde il principio costitutivo diventa difficile tesserla. Come la maglia di un maglione, devi saper maneggiare gli elementi che la riproducono. Per esempio contrastando gli elementi di frantumazione del corpo sociale>>. Ma la strada sembra molto lunga. <<Potevamo essere un modello per gli altri, e forse lo siamo anche stati, ma abbiamo cambiato visione. C’è un’adesione ideologica a questo nuovo desertificato di relazioni. Bisogna fare un grosso lavoro culturale, perché c’è una grande mancanza di consapevolezza della società su se stessa. E questo è drammatico>>.
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Foto di copertina: Lo skyline di Milano visto dal Duomo – Di Nicolago – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=26404170