Per secoli, le città italiane sono state un modello di urbanistica. Costruite per favorire l’abitare condiviso, erano considerate vere e proprie opere d’arte. Ma dal Novecento ai giorni nostri, quell’enorme patrimonio di sapere si è perso. E le non-città in cui viviamo oggi influenzano negativamente il nostro modo di vivere. Giancarlo Consonni, professore emerito di Urbanistica al Politecnico di Milano, ci spiega cos’è successo.
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“Come si spiega che in questi 60 anni, a fronte di un’esasperata estetizzazione delle persone, proprio la bellezza sia fra le assenze più vistose nelle trasformazioni dei paesaggi e degli insediamenti umani?”. La domanda che Giancarlo Consonni si pone nel suo illuminante libro “La bellezza civile. Splendore e crisi della città” mi balena spesso in mente. Succede ogni volta che incrocio il mostruoso intruso di uno dei nostri centri storici, quando attraverso una qualsiasi periferia italiana o mentre percorro la strada di una campagna cementificata, tappezzata di capannoni industriali e anonime villette a schiera.
Che cos’è andato così storto da farci passare dalla bellezza dei nostri centri e borghi antichi alla bruttezza dilagante degli ultimi decenni? E non è solo questione di estetica. E’ questione di bellezza civile, come ci ricorda Consonni: la bellezza non solo come risultato, ma come motore di quelle pratiche che rendono il mondo abitabile. Perché poi, in quei luoghi, ci dobbiamo vivere e “le donne e gli uomini sono anche le cose, i contesti, i paesaggi in cui vivono”.
<<Olivetti l’aveva capito. Diceva che l’urbanistica è un aspetto della politica perché determina i modi della convivenza>>. Mi spiega Giancarlo Consonni all’Archivio Piero Bottoni del Politecnico di Milano, tra le più importanti raccolte universitarie, da lui co-fondata nel 1983. <<Ma oggi l’urbanistica è vista solo come chiave dello sviluppo, con la funzione di rilanciare l’edilizia, di rilanciare l’economia, e non si capisce, invece, che il modo in cui si costruisce definisce la politica di lungo periodo>>.
Pesa un’impreparazione generale a tutti i livelli, a cominciare dai politici. <<Non conoscono i codici di traduzione, come una politica che vuole fare il bene comune si traduca in un’urbanistica che faccia il bene comune. Bisognerebbe avere consapevolezza di come si costruisce lo spazio della convivenza civile>>. Una consapevolezza che oggi sembra scomparsa, ma non è sempre stato così.
Un sapere fondato sulla relazione
<<Fino all’Ottocento, ai primi del Novecento, costruire la città significava anche costruire i luoghi della convivenza civile>>. Fino ad allora, per secoli, la città aveva poggiato su un’unità inscindibile, quella tra urbs e civitas: il corpo urbano (urbs) era pensato a misura d’uomo, doveva offrire l’habitat ideale per le relazioni comunitarie, le regole e le istituzioni della cittadinanza (civitas).
Per riuscirci, l’urbanistica considerava tutto in relazione, ricercando l’equilibrio tra coppie di opposti: interno ed esterno; chiuso e aperto; pubblico e privato; rifugio e relazione; moto e quiete; urbano e rurale.<<La grande architettura è sempre un rapporto tra interno ed esterno. Anche l’esterno è un progetto di architettura>>.
Un progetto da concepire in una dimensione teatrale. <<Lo spazio aperto urbano è una “cavità teatrale”, come scrisse il regista e teorico teatrale statunitense Richard Schechner: nella cavità dello spazio aperto pubblico, nella piazza, ma anche nella strada, si verifica, infatti, un’interazione di presenze che ha molto dell’interazione che si consuma in ambito teatrale. L’architettura dello spazio aperto pubblico è il luogo della messa in scena delle relazioni interpersonali, delle relazioni della vita civile>>.
Per diverso tempo, le città europee, e in particolare quelle italiane, hanno interpretato al massimo grado questa concezione. <<Nella città cristiana, lo spazio pubblico è un interno a cielo aperto, dove si esprime una tensione relazionale. Dinamiche complesse rendono quel luogo non solo accogliente, ma anche capace di portarti al cuore profondo dell’abitare: abiti dentro l’universo, ma in una relazione terrena con gli altri>>.
Pensiamo ad esempio a piazze medievali come piazza del Campo a Siena, che, per Consonni, rappresenta una sintesi tra l’architettura del teatro greco e quella del teatro romano: una radura dove la terra incontra il cielo, proprio come nello squarcio di una foresta, e uno spazio teatrale strutturato dall’interazione degli straordinari edifici che lo delimitano.

Ma pensiamo anche ai portici medievali, come quelli di Bologna, dove gli elementi di mediazione per eccellenza, le colonne, connettono interno ed esterno, chiuso e aperto, creando giochi di profondità, penombra, diafanità e dissolvenza. Un esempio luminoso della splendida definizione di strada coniata da Louis Kahn: <<Diceva che la strada è una successione di stanze della comunità. Chi procede, in particolare nella strada porticata, avverte un insieme di sensazioni e, come in un racconto, interagisce con gli spunti che incontra>>.
Spunti che provengono anche dalle abitazioni private, quando il lusso non viene ostentato, ma è nascosto nell’intimità della casa e si lascia scorgere dall’esterno: è il caso dell’antica Grecia e dell’antica Roma, e anche delle corti della Milano del Quattrocento, che riprendono <<dalla domus romana l’idea di un interno protetto della casa, ma in relazione con la strada, con la visione dell’androne che faceva intravedere i giardini>>.
Riservatezza, dunque, e massima armonizzazione con il contesto circostante per non prevaricare quel sottile equilibrio tra interno ed esterno, chiuso e aperto, pubblico e privato alla base del convivere. Perché è l’abitare condiviso a dover essere l’autentico motore della città.

Verso la metropoli: il canto del cigno
La tensione alla condivisione non viene meno neanche nell’Ottocento, in piena industrializzazione, quando cambia la divisione del lavoro tra città e campagna e gli interventi urbanistici acquisiscono una connotazione di classe, determinando processi di selezione sociale e la polarizzazione tra centro e periferia.
<<In fondo, la prima città borghese, quella della magnificenza civile della prima metà del 1800, e quella successiva hanno celebrato i luoghi della convivenza>>. Come accaduto, ad esempio, a Parigi, dove si moltiplicano gli spazi dedicati al passeggio. <<Haussmann (l’urbanista che realizzò l’imponente piano di ristrutturazione della capitale francese dal 1852 al 1869, ndr.) distrusse molto della città storica, ma la sostituì con ambiti della vita sociale che hanno segnato un’epoca. Come il boulevard o gli stessi passage, che sono stati celebrati da Benjamin in una straordinaria opera incompiuta (Parigi, capitale del XIX secolo. Ndr.), perché aveva capito che aprivano delle possibilità per una socialità>>. Con il boulevard elevato a teatro principale, emerge il fenomeno della folla. <<L’idea della folla, come colto da Baudelaire, comportava l’anonimato, il sentirsi protetti dall’anonimato stesso rispetto alla logica pervasiva della comunità>>
L’Ottocento avvia una lunga fase di passaggio per l’Europa occidentale, dalla città storica a quella che sarà poi la metropoli. Le realtà urbane devono fare i conti con il concentrarsi di attività produttive, sovrappopolazione, condizioni igieniche sempre più difficili e forti diseguaglianze sociali in spazi ravvicinati.
In Spagna, c’è chi prova governare l’espansione: è Ildefons Cerdà, che, nel piano di ampliamento di Barcellona della seconda metà dell’Ottocento, s’immagina di trovare un nuovo equilibrio nei rapporti duali fondanti dell’urbanistica, a cominciare dal binomio moto e quiete, che da lì a poco verrà stravolto dall’avvento dell’automobile. Purtroppo, la sua voce è rimasta perlopiù inascoltata.
L’avanzare del capitalismo, infatti, cambia il principio ordinatore degli spazi: la cura dei luoghi viene sostituita dalla remunerabilità degli investimenti privati. L’unità tra civitas e urbs, alla base della città storica, finisce per diventare un ostacolo, perché pone dei limiti alla ricerca del massimo profitto. La logica capitalistica riduce ogni cosa a valore di scambio, anche gli ambienti dove le persone vivono. Si genera così un forte conflitto che esplode definitivamente nel corso del Novecento, quando s’impone una visione disorganica e separatista, che spinge verso la disgregazione.

Uniformità e razionalismo
La prima metà del Novecento, infatti, vede affermarsi alcune correnti di pensiero che lasciano lunghi strascichi, non ancora risolti: il funzionalismo, già emerso in precedenza, e il razionalismo, che sboccia a cavallo delle due guerre mondiali. Prevale l’utopia di estendere a ogni ambito dell’attività umana i principi di efficienza, economicità e produttività, elaborati nella scienza dell’organizzazione del lavoro. La forma dev’essere essenziale e deve originare la massima funzionalità, che si crede coincida con l’ordine geometrico. Si perde, inoltre, la distinzione tra uniformità e unitarietà: malgrado numerosissime realtà urbane testimonino come le differenze non pregiudicano ordine e armonia, secondo il Razionalismo spetta all’uniforme garantire un assetto ordinato.
Tra i protagonisti, spicca un personaggio molto discusso, il francese Le Corbusier, che, tra gli anni ’20 e l’inizio degli anni ’40, propone progetti decontestualizzati, senza riferimenti alle millenarie opere di umanizzazione. <<E’ un grandissimo architetto, ma un distruttore di città. Alcune sue proposte per Parigi avrebbero comportato una distruzione estesissima del tessuto della città. Nel suo progetto, natura e tecnologia sono gli unici soggetti della trasformazione: una natura intesa come incontaminata e primigenia e una tecnologia avanzata per l’epoca. Queste sue proposte per fortuna non sono state attuate, però sono penetrate nel DNA delle trasformazioni>>.
Fare tabula rasa dei corpi urbani storici, del loro carattere teatrale, della loro messa in scena dell’abitare condiviso, per celebrare un nuovo inizio della storia del mondo. Un inizio basato su tecnologia e natura, a cui viene chiesto di sostituire i legami esistenti tra gli organismi edilizi e tra di essi e il contesto circostante. È questo il sogno non troppo recondito di Le Corbusier, che all’inizio degli anni ’30 scrive “Il faut tuer la rue-corridor!” (“Dobbiamo uccidere la strada corridoio”), cioè la strada stretta dei tessuti urbani antichi, colpevoli di limitare sole, aria e luce, individuate come le tre precondizioni della gioia di vivere.

In quegli stessi anni, la tabula rasa agognata da Le Corbusier è messa in pratica dal fascismo in Italia, con il famoso piccone demolitore, che sventra quartieri lungo tutto lo Stivale. A spingerlo sono, però, ben altre motivazioni: trasmettere un’immagine di grandezza liberando spazio per monumenti antichi o nuovi e spostare i ceti meno abbienti dai centri storici alle periferie, tra borgate e baraccopoli.
La città per l’automobile e l’analfabetismo urbano
Ma è nel dopoguerra che il panorama italiano cambia radicalmente. E’ quello il periodo della ricostruzione, del boom economico, delle migrazioni dal Sud al Nord, dello spopolamento delle campagne e dello sviluppo selvaggio delle città, dove l’assenza di una legge urbanistica appropriata spalanca le porte alla speculazione edilizia. Ed è quello il periodo della diffusione di massa delle automobili, che dal 1950 alla fine degli anni ‘60 passano da circa 340 mila a nove milioni di unità. Una vera e propria rivoluzione, che non trova anticorpi. <<Uno degli elementi della devastazione era l’illusione che si dovesse costruire un contenitore a misura di automobili. Ancora una volta la metafora proviene da Le Corbusier: “è cambiato il contenuto, occorre cambiare il contenitore”. Una delle tante semplificazioni alla base di questa degenerazione culturale>>.
Sostituire le automobili agli uomini significa sostituire la rete infrastrutturale alle relazioni di prossimità, fondamenta della città storica. Il fenomeno esplode definitivamente con il passaggio delle città dalla fase industriale a quella post industriale. <<Nella fase della città post industriale, si verifica una diaspora dei cittadini verso la vecchia campagna, che si trasforma in periferia metropolitana>>.
È l’assedio finale a quel rapporto secolare di interdipendenza tra città e campagna, che fino al Novecento avevano condiviso sia il sentimento dell’abitare sia la cura del proprio paesaggio. La campagna viene sempre più erosa e la città continua a perdere compattezza, l’abitare si riduce a residenza, le aree urbane sono sempre più destinate a funzioni specifiche, s’impoverisce la complessità dei luoghi e cambia la natura degli spazi aperti. <<Il sapere profondo di ciò che costituiva città si è in gran parte dissolto>>.
E contemporaneamente, non a caso, si completa la dissoluzione delle comunità su cui poggiavano le città storiche: la comunità di quartiere e la comunità della città nella sua totalità. La comunità, laddove si forma, è ormai slegata dai luoghi. E così la costruzione dei luoghi non è più il risultato di una volontà collettiva, che cerca una propria rappresentazione nella città.
Il processo è compiuto e innesca nuove dinamiche. Emerge il problema della sicurezza, perché sono le relazioni comunitarie a rendere un luogo sicuro. E si perdono i legami e l’armonia tra gli organismi edilizi e il loro contesto: a dilagare è l’individualismo, anche in architettura. <<Questo porta alla solitudine degli oggetti architettonici e al loro conformarsi a modelli di banalizzazione o di distinzione in nome della stravaganza. L’architetto che si presta a questo tipo di operazioni è perlopiù un carrozziere, ma molto meno fine dei carrozzieri, e va alla ricerca di fogge stravaganti per dare personalità agli oggetti architettonici. Per cui mentre prima la regola era l’affabilità, la somiglianza, la congruità, la coralità, adesso è l’individualismo, il narcisismo, è l’espressione anche dirompente pur di far colpo in una società dell’immagine>>.
Non c’è più alcun ostacolo alla distruzione causata dal binomio che oggi domina incontrastato. <<L’accoppiata tra rendita immobiliare e tecnologia produce il paesaggio contemporaneo: da una parte innalzamenti verticali e vertiginosi nelle aree centrali, come indica il modello newyorkese e delle metropoli asiatiche; dall’altra parte, la “non città”, sparpagliata, dove l’automobile ha consentito la fine dall’abitato come aggregato>>.

L’analfabetismo lascia il campo aperto al trionfo della tecnica, issata a divinità. <<La tecnica è l’opposto della cultura. Il problema è come nutri di cultura il fare. E invece noi il fare lo consegniamo a una tecnica che sfonda dove può sfondare, senza avere un disegno complessivo. Sfonda perché intuisce il business e la remunerazione del capitale, non perché quella cosa lì costituisce un avanzamento dell’umano e della società. Questo è il conflitto che si genera nella fisicità del mondo. La tecnologia è diventata un grimaldello della trasformazione, che non è al servizio di un’idea di uomo, cioè non è metabolizzata e non è dominata da una consapevolezza del cosiddetto bene comune>>.
Così è difficile sentirsi a casa oggi. L’esterno non è più un interno, non ci sono più elementi di mediazione, né tensioni teatrali a mettere in comunicazione l’interiorità dell’individuo con le creazioni dell’architettura contemporanea. <<Negli spazi che vengono celebrati quotidianamente dai media, la prima sensazione è di sentirsi estranei, di sentirsi fuori. Il mondo costruito non è più ospitale, non è più capace di nutrire l’immaginario collettivo>>.
Per trovare qualcosa che si salvi, purtroppo, bisogna soprattutto uscire dall’Italia. <<Un’esperienza cardinale rimane, per me, la Barcellona dell’ultimo quarto del secolo scorso. Per il resto ci sono parecchi esempi (soprattutto nel centro-nord Europa) di interventi ispirati a principi di urbanità e bellezza>>. Interventi che mirano a diversi obiettivi: potenziare le relazioni metropolitane; riconnettere le parti divise della città; superare la tendenza a creare spazi destinati a specifiche funzioni; definire luoghi in cui convivano libertà e sicurezza e che fungano da teatro per la dimensione civile. Interventi, dunque, che recuperano la complessità ma che non conquistano le prime pagine dei giornali. <<La discrezione e la misura non fanno notizia né audience e per questo sono fuori dai riflettori dei media. Con il risultato che i media sono un luogo di produzione del nuovo, dilagante analfabetismo urbano>>.
In tale contesto, un cambiamento sarà possibile soltanto con un processo di rialfabetizzazione, che non può che passare dal ricomporre la frattura tra urbanistica e architettura, avvenuta gradualmente dagli anni ’50. Con la separazione tra le due discipline, l’urbanistica si è aperta alle scienze umane e ha finito per focalizzarsi sulla civitas, perdendo di vista “le forme storiche dell’urbs”, mentre l’architettura si è collocata nell’ambito delle arti espressive e si è ritirata in un formalismo autoreferenziale, trascurando la civitas e i suoi bisogni. <<Le separatezze fanno deflagrare la coscienza unitaria delle cose, l’approccio complessivo che teneva insieme tutto. Le separatezze hanno contribuito al disunirsi del mondo. Ciò che c’è nei saperi si riflette nella realtà e viceversa: due gambe che camminano nella stessa direzione, che è distruttiva>>.
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Foto di copertina: Piazza del Campo a Siena – By Andrzej Otrębski – Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=38302470